La vera storia della guerra dei Bomboloni al Columbus. Ovvero la fame è una brutta bestia. (Racconto andato in onda su Radioseeeyou.com)

Ricordo che era il 1982 . Era una serata fantastica d’estate, ma in quel periodo della vita, quello che attraversa i vent’anni, erano tutte serate fantastiche. La Mecca aveva appena chiuso. Noi tornavamo al Columbus. Allora la Mecca non chiudeva tardissimo ma a cavallo delle due di mattina così noi della compagnia di Bologna o aspettavamo Pery per mangiare la pizza o andavamo al Columbus.

Già la Pizza .Ricordo che andavamo a Rimini al di là della ferrovia verso la collina  in un locale con grandi vetrine sulla strada ,appollaiato su  un incrocio sulla strada che porta alla statale Adriatica. Sedevamo in una lunga tavolata rettangolare . Pery si sedeva in mezzo  con la sua ragazza e noi tutti intorno. Trovavo all’inizio strano ed eccitante allo stesso tempo sedermi vicino a lui. Pery il DJ della Mecca. Se si diceva Mecca si pensava subito alla musica e Pery era l’anima della Mecca.  La cosà che mi colpì fin da subito fu che in fondo era un ragazzo come noi che non si nascondeva dietro a forme di protagonismo, superiorità o snobismo. Pery rideva, scherzava e parlava tranquillamente con tutti noi . Chi ci avesse guardato dal di fuori non avrebbe potuto distinguerlo  da uno del gruppo. Quella sera, come dicevo, avevamo deciso di tornare

al Columbus. Lì, raggiunto piazzale Roma, ci affaccendammo a chiacchierare tra noi  della serata appena trascorsa, a salutare qualche volto amico o ad intrattenere qualche bella ragazza. A me ,che avevo una fame biblica, lì per lì venne l’idea di trovare un fornaio aperto. Allora, come tutti, ero afflitto da fame perenne. Con Franco in campeggio mangiavamo pochissimo per risparmiare il più possibile visto che di soldi non ne avevamo tanti. La nostra alimentazione in un mese di mare consisteva tutti i giorni nei seguenti alimenti : 

Un cappuccino e 2 bomboloni al mattino. Un panino a mezzogiorno e uno alla sera da 3000 lire semplici per lo più con la mortadella perché era il salume che costava meno in assoluto. Poi succo di frutta o acqua. La notte  ci concedevamo o  la pizza  oppure le patatine fritte alla baracchina, sulla strada vicino al Fontanelle. Difatti pesavo pochissimo, circa 75 kg, poco per un ragazzone  alto  quasi 2 metri .

Qualche volta mi veniva così tanta fame la notte che riuscivo a sentire l’odore del pane appena sfornato da molte centinaia di metri di distanza .Così mi inoltravo per le vie di Riccione seguendo quella fragranza invitante fino a raggiungerne  il forno. Spesso mi accontentavo del pane caldo se non aveva nient’altro da vendermi. Quella sera dissi a gran voce «Ragazzi io ho fame. Chi viene a cercare un forno con me?» Con mia sorpresa ci fu un coro di adesioni. Dovevamo avere tutti una gran fame perché con me si aggregarono Bongo ,Franco e Bibendum  . Ci avviammo giù per viale Ceccarini svoltando lungo via Dante .Ad  un tratto riconoscemmo l’odore inconfondibile di pane appena sfornato. Svoltammo decisi in una laterale sulla sinistra di via Dante poco prima del canale. La via era deserta illuminata solo da pochi e radi lampioni

Ad un tratto il profumo si fece più intenso e finalmente vedemmo in fondo alla via l’agognato forno. La bottega era tutta illuminata. Davanti ad essa distinguevamo il fornaio che era intento a caricare una grande teglia  all’interno del suo apecar  piaggio furgonato. Dopo avere sistemato la  teglia il fornaio rientrò nel forno lasciando aperte le porte posteriori del furgone.

«Non ci ha visto» sibilò Bongo. Ci avviciniamo di soppiatto incuriositi al mezzo e appena guardammo dentro al cassone trasalimmo. Il contenuto delle teglie erano decine di bomboloni alla crema appena fritti ,coperti di zucchero  che emanavano una fragranza celestiale. Ero commosso da tutta quella fragranza appena sfornata così dissi entusiasta: «Cavolo me ne mangerei un paio entriamo?» Non faccio in tempo a finire la frase che mi accorsi con la coda dell’occhio che Il Bongo, lesto come il Zanardi di Pazienza ,aveva sfilato una teglia grande di bomboloni e se ne correva veloce  nella direzione opposte da dove eravamo arrivati. Io e gli altri ci guardammo stupiti per un attimo e poi quasi all’unisono cominciammo a correre a perdifiato  dietro al Bongo sparendo nelle tenebre. Girato l’incrocio ci fermammo tutti ansimanti.

«Ma che cazzo Bongo non sarai mica matto? L’hai rubata zio prete. Questo è un furto bello e buono.» Sibilai in tono di disapprovazione E intanto pensavo alla faccia che avrebbe fatto il povero  fornaio tornado al suo ape car nello scoprire che una intera teglia del suo fragrante prodotto era sparita.

Il Bongo che aveva ancora in mano la teglia del maltolto con un ghigno da monello sul volto  mi disse:

«Purio hai  intenzione di rompere ancora i maroni a lungo o invece taci e te ne mangi uno?»

La fame era davvero una brutta bestia. Così di fronte alla vista di quei bomboloni celestiali non riuscii a resistere. Mi azzittii e presi con mano tremante uno di quei  bomboloni fritti ancora tiepidi. Vi Affondai golosamente un grosso morso. Lo zucchero si appiccicò su tutte le labbra mentre la crema tiepida, buonissima mi scendeva in gola assieme alla pasta fritta celestiale.  Era questa la felicità mi chiesi. Sorrisi felice. Ne mangiammo tutti allegramente mentre ci incamminavamo di nuovo verso il Columbus. Una volta arrivati Il Bongo che si stava ingozzando con un bombolone disse con la bocca piena «Oh ma sono buonissimi. Me li  mangerei tutti». «Seeee » gli fece eco il Bibendum, «Anche meno» Asserì prendendo in giro il Bongo. Io, che mi stancavo facilmente dei dolci pesanti, ero solo al secondo bombolone e già cominciavo a sentirmi sazio, quando sentii la sparata del  Bongo. Così replicai: gli dico « Quanti mai ne potrai mai mangiare Bongo? Se ne mangi 6 di fila sei un drago.» Affermai deciso.

 «Scomettiamo che io me ne mangio di più?»  

Rimanemmo un attimo tutti interdetti.

«Va bene vediamo, adesso te li conto. Quanti ne hai già mangiati?»  Il Bongo allungò la mano sinistra  alzando 2 dita mentre con la mano destra si portava un grosso pezzo di bombolone che spariva tutto in bocca. Finito di trangugiare il boccone il Bongo si disse pronto alla sfida. .

Arrivati al Columbus il Bongo sedette sul muretto e diede il via alla sfida. E mentre io faticavo non poco a mangiare il terzo bombolone, il Bongo fece sparire in due morsi un quarto bombolone mentre aveva già preso in mano il quinto. Eravamo rimasti tutti a bocca aperta perché il Bongo stava per compiere quello che per me sarebbe stato impossibile fare e considero tutt’ora un ‘impresa da campione. Finirà per mangiarne 13 uno dopo l’altro come se niente fosse e rifiutando il 14 con la nonchalances di un vero campione. Quanto ai bomboloni verranno abbandonati al loro destino da noi che non ne volevamo più. Alcuni finiranno trangugiati in un attimo da ragazzi e ragazze che avevano assistito alla sfida. Per altri non sarà l’interno di uno stomaco la loro ultima meta. Spinti dalla goliardia del momento qualcuno iniziò a tirarseli addosso. C’erano bomboloni che ti volavano sopra la testa e addosso  tra le risate degli spettatori. Davvero un triste destino per un così celestiale cibo .Quanto a noi che dire avevamo la pancia piena di bomboloni e crema  . Guardai Il Bongo che rideva con gli altri ,guardai i miei amici ,i loro volti sorridenti  ,sentivo che i loro cuori e il mio battevano all’unisono  No non c’era posto per la morale , non lì, non quella sera. Mi sentivo in colpa ma mi assolsi in fretta , Mi avvicinai ai miei amici.

« Ehi Bongo ci fumiamo una paglia?» dissi.

Ci accendemmo una sigaretta e ci scambiammo un sorriso. Guardai il Columbus, guardai i miei amici cari e poi il mare nero e profondo che brillava sotto i raggi della luna davanti a me. Respirai l’aria salmastra a pieni polmoni e mi sentii vivo. Guardai di nuovo il piazzale. La vita pulsava in quei pochi metri come non mai. Mi sentii parte di una cosa più grande, che era viva e vitale. Meritavamo tutti per una volta di essere trattati con indulgenza. Meritavamo tutti  per una volta di non essere giudicati. Meritavamo tutti di essere assolti.

E così feci.

Inviatemi le vostre storie, i vostri brevi aneddoti. I migliori li pubblicherò sul mio Blog.


Un caro saluto a tutti voi della Tribù. Nel mio blog ho scritto sempre di me, raccontando le mie esperienze vissute in quei meravigliosi anni. Oggettivamente oggi sento l’esigenza di potere allargare la mia conoscenza di quel periodo tramite i Vostri di ricordi. Ho pensato che sarebbe stato molto bello potere conoscere posti e luoghi, anche se tramite i racconti di altre persone,che io fisicamente non ho mai frequentato come per esempio il Melamara. Se vi va e ne avete voglia mandatemi una mail a:

andreacastagnini65@gmail.com

mandatemi brevi aneddoti e vostri ricordi ( Una due cartelle massimo) e i migliori, quelli più divertenti e degni di nota saranno pubblicati sul mio blog spero con cadenza almeno quindicinale. Inoltre sta per partire un progetto radio nel quale vorrei dare lettura breve di aneddoti, fatti e avvenimenti vostri. Se ci riuscirò e mi manderanno in diretta vorrei anche telefonare o farmi telefonare dalle persone per raccontarci per stare ancora assieme come allora. Io spero che ne sarete entusiasti e tanti. Vi abbraccio nella speranza di leggervi presto. Per ora è tutto alla prossima.

Foto! Le nostre foto.

Tante sono le foto dei ricordi che pubblicate giornalmente nei Social. E’ veramente uno spettacolo nonché un privilegio vedere e rivedere le decine di foto che vengono postate nei Gruppi Baiosi. E’ un gesto di condivisione autentico, molto profondo e intimo. Un semplice gesto che finisce per unire tramite il potente mezzo dell’evocazione visiva. Sono immagini tutte molto belle e ognuna ci racconta un po’ della persona che l’ha postata e molto di quel magnifico mondo che ci apparteneva e che ci mangiavamo a morsi, avidi come eravamo, con tutto il trasporto dei vent’anni. Queste foto compongono tutte assieme un quadro colorato come il gigantesco arazzo di Bayeux. Ci raccontano una storia che è poi la storia di tutti noi. Quella vita vissuta tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80. Volti sorridenti che racchiudono  tutta la felicità la spensieratezza di quegli anni giovanili. Tutta la vitalità che avevamo traspare da ogni singolo scatto, posa, gruppo. La potenza di quel mondo è esaltata  dallo sfondo dei luoghi per noi evocativi come il Columbus o l’interno delle discoteche, scatti rari quanto preziosi memoria storica. Le foto di Gruppo poi sono le più belle per me. Disegnano quei momenti quando qualcuno aveva la fortunata idea di portarsi dietro una macchina fotografica e decideva di scattare foto magari ad un amico, un’amica, la nuova ragazza. Il soggetto della futura foto non faceva in tempo a mettersi in posa che veniva subito attorniato  da una folla di ragazzi festanti e chiassosi pronti per essere immortalati a imperitura memoria. Proprio per questo motivo, per il fatto che bisognava avere una macchina fotografica e non c’era la fotocamera del cellulare, questi scatti sono oggi preziosissimi. Ora sarebbe stato tutto molto facile. Certo avremmo migliaia di scatti in più ma ci saremmo sicuramente persi la magia dello stupirci e dell’emozionarci nel rivedere foto perse nel tempo. Perché quello che ti fa sentire vivo non sono le cose materiali ma le emozioni. Sono le emozioni che ti fanno battere il cuore a mille quello che ti fa dire che ne valeva la pena a prescindere. Quello per cui oggi, tu ti senti vivo. 

BUON NATALE E BUON ANNO A TUTTA LA TRIBU’

Un altro anno è passato, un lungo anno assieme a tutti voi, ragazzi della tribù. Con questo sono oramai due anni da quando ho deciso di aprire questo Blog. Nell’augurarvi a tutti voi e alle vostre famiglie un Buon Natale ed un Felice Anno Nuovo volevo ringraziarvi. Ringraziarvi per avermi seguito sempre con costanza ed entusiasmo.Ringraziarvi perché senza il vostro stimolo io probabilmente non avrei scritto il romanzo ” I Ragazzi del Columbus”. Grazie ai miei Followers siete 105 e siete per me stupendi e pazienti. Grazie a tutti coloro che hanno perso 5 minuti per leggere i miei post. Io spero che anche due righe sconclusionate abbiano tenuto in vita il ricordo stupendo dei nostri vent’anni. Vi abbraccio a tutti voi eravate stupendi allora e lo siete di più ancora adesso. Mi fa capire che siamo una grande generazione piena di valori e ideali . Eravamo in fondo ragazzi che volevano vivere e credetemi abbiamo vissuto. Ciao tribù al prossimo anno e al prossimo post. Buon Natale e Buon Anno

IL LUNGO, CON GLI ALTRI, ALL’ AFRORADUNO A GAMBARA, COL SACCO A PELO IN MANO ( inedito)

Sono stato un po assente ultimamente sul Blog. La promozione del mio romanzo mi porta via tanto tempo. Ho deciso di postare questo breve raccontino con i miei personaggi ai quali sono oggi più affezionato che mai. Spero che lo gradirete. Un saluto a tutti voi che continuerete a leggermi.

Luglio 1983

Faceva un caldo pazzesco e l’Afroraduno a  Gambara era appena finito. Era tardi. Guidavo la mia R 4 apparentemente senza una meta appena fuori del paese. Il Biccio dormiva già spiaccicato contro un finestrino dietro di me. Il Rosso stava rullando l’ennesima canna a fianco del dormiente. Di fianco avevo Zanna che sembrava perso nei suoi imperscrutabili pensieri.

«Che c’è fratello? » Cercai di scuoterlo, «Sembri preoccupato.»

«No Lungo sono solo stanco e un po’ in fattanza,»

«Solo fattanza o c’è dell’altro? » Continuai a incalzarlo.

 « A te Lungo non ti si può nascondere proprio nulla. Sì qualcosa mi tormenta il cervello.»

«Cosa?»

«Sono preoccupato per mamma non è stata molto bene in questo dannato periodo.»

«Il suo cuore ballerino Zanna? E’ così?»

Il mio amico annui deciso e sembrava che le parole gli si strozzassero in gola.

«Mi dispiace mormorai. E’ grave?» Domandai.

«Per ora l’abbiamo scampata. Speriamo. Ma questa cosa mi uccide ed è come avere un chiodo piantato  nel cervello. Penso sempre a Lei.»

«Ti capisco. Non ci voglio neanche pensare che potrebbe succedere se… » Mi azzittii. Zanna mi guardò con occhi pieni di tristezza e proprio in quel momento la voce del Rosso ruppe un po’ la tensione tra noi.

«Fumati questa Zanna vedrai, non risolverà tutti i problemi, ma per anestetizzare il cervello farà miracoli.» Asserì il mio amico mentre passava la canna.

Zanna l’accese. Tirò grosse boccate di fumo e per un momento mi sembrò che finalmente si rilassasse. Dopo tanto girovagare nel buio della notte intravidi uno sterrato che portava ad un prato oltre il fosso. Mi ci infilai senza pensarci tanto e fermai l’auto. I fari illuminavano un’ infinita distesa di granoturco maturo. Scesi dall’auto ero veramente stanco. “Qui andrà bene” mi dissi. Intanto tutti e tre  i miei amici erano scesi. Il Biccio si stiracchiò sbadigliando.

«Dormiamo qui ragazzi?» Inquisì perplesso.

«Che volevi? Una Suite allo Sheraton? »Gli sghignazzò in faccia il Rosso.

«Sei sempre il solito idiota.» Gli disse il Biccio, che rapido si portò al bordo del campo per prendere la prima pannocchia che gli capitò per le mani. Mirando, la tirò verso il Rosso. La pannocchia con una parabola sghemba sfiorò la sua testa.

«Ma sarai scemo Biccio. Che ti piglia ? Potevi farmi male di brutto. Ma che hai?» Proferì in tono arrabbiato il mio amico.

«Quella tua testaccia rossa è a prova di pannocchie vuoi vedere?» E rapido il Biccio tirò un’altra pannocchia mirando di nuovo. Il Rosso con un balzo a destra la scansò e appena la pannocchia con un tonfo sordo toccò terra, la prese e la rinviò al mittente senza cogliere però il bersaglio. I due incominciarono a tirarsi pannocchie smoccolando ad ogni tiro. Io e Zanna, che ci godevamo la scena appoggiati alla mia R4, ridemmo di gusto mentre i fari illuminavano tutta la scena. A un tratto il Biccio  staccò un’altra pannocchia e me la tirò, così a tradimento. Il granoturco mi colpì ad una spalla.  Provai persino un po’ di dolore. Non tanto solo un poco.

« A è così?» Sibilai mentre prendevo da terra la pannocchia che mia aveva colpito restituendola con forza al mittente. Il Biccio fece in tempo a girarsi e la pannocchia si stampò sulla sua schiena. Il mio amico riccioluto se la rideva di gusto. Senza fare una piega prese un’altra pannocchia e la tiro addosso a Zanna che se la stava godendo a guardarci.  Incominciò così una guerra tra di noi fatta di pannocchie che volavano da tutte le parti. A destra e manca. Ridevamo divertiti prendendoci in giro ad ogni lancio. La battaglia durò per un bel po’ poi, stanchi dalla lunga giornata, finimmo tutti quanti, esausti, stesi vicini l’uno all’altro a ridere come matti. Non c’era un senso a questa cosa anzi spesso tra amici questa cose succedevano così senza spiegazione. Era forse la nostra anima bambina che si divertiva senza un perché, per puro divertimento. Una di quelle cose che le amicizie le cementava nel tempo. Così la notte fonda trovò 4 ragazzi che dormivano ai piedi di un R4 vicino ad un campo di granoturco. La luna piena illuminava tutta la scena, complice. Solo io facevo fatica a prendere sonno. Pensavo ancora a Giulia. A Giulia, che io e lei non stavamo più assieme e che mi mancava da morire. Guardando la Luna, lassù nel cielo chiesi alle stelle un miracolo. Di poterla baciare e stringere un’ultima volta. Poi buttando giù il magone che mi serrava la gola mi girai e con questo pensiero finalmente mi addormentai…………..

UNA TRIBU’ FELICE

Perché scrivere degli  anni 80? Pèrché poi a distanza di così tanti anni? Quasi fossero oramai Storia. E forse, in realtà, un po’ lo sono già Storia. Se ripenso a quegli anni in retrospettiva mi accorgo che noi, giovane generazione, senza rendercene conto, vivemmo un momento sicuramente eccezionale. In noi albergava un senso di grande libertà ed in una prospettiva più ampia anche una solida fiducia nel futuro. Ci muovevamo nel presente con l’intensità dovuta da chi viveva decidendo di cogliere l’attimo. Con quella curiosità positivistica nella quale eravamo cresciuti in anni tranquilli ed economicamente stabili. Fu per questi motivi che la nostra “Generazione Baiosa”, priva di quell’ ansia e del senso di fallimento che attanaglia le giovani generazioni odierne di fronte ad un futuro oscuro e incerto, maturò una umanità insolitamente accogliente, positiva e protesa al comprendere e all’accettazione dell’altro inteso come specchio di se stessi. Fu in questo humus stimolante e ricco di umanità che crebbe un’intera generazione di ragazzi dai capelli lunghi. In quelle’ambiente , con quelle condizioni crebbe quel senso di amicizia e calore che ci avvolse e conquistò subito. Il diverso, la persona che veniva da un’altra città, provincia, regione, divenne immediatamente riconosciuto non solo come un’ amico ma molto di più, come un fratello come se fosse anzi una parte di noi stessi. Ho sempre trovato strano che non ci fosse mai stato nessun accenno letterario ad un ” modo di essere ” più che una moda. Direi quasi una vera tribù di giovani nomadi, di marinai che solcavano i mari di asfalto seguendo forse un sogno. Quello della nostra giovinezza. E forse nasceva da questo il mantenerci nell’oblio. Lo scoprire che c’eravamo riusciti a vivere quegli anni pienamente come sognavamo e come volevamo spesso riuscendoci. Perché di noi Baiosi si potrà dire di tutto ed il contrario di tutto, ma non certo che non eravamo felici. Sì felici di esistere e vivere. E noi o abbiamo fatto e secondo me alla grande. Ed in un mondo grigio e scuro avere acceso i colori della nostra gioventù e passione non fu poca cosa davvero.

I Ragazzi del Columbus

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Finalmente è disponibile il libro su Amazon .

Vi metto a disposizione le prime pagine del romanzo spero gradirete

 

 

Premessa

 

 

 

Credo che a tutti sia capitato nella vita di incontrare una persona che ti stravolge l’anima a tal punto che, quando sei in sua presenza, sei talmente fuori da non capire più nulla di te, di lei, di voi, del mondo che ti gira attorno.

La cosa strana è rendersi magari conto che lei non è per te, anzi, esserne consapevole ma andare diritto verso il baratro con un sorriso ebete, felice di farti massacrare perché quell’amore, che non ti sei affatto scelto, è anche questo. Già, questo amore così folle e assurdo da essere al tempo stesso talmente forte e risoluto da resistere allo scorrere inesorabile del tempo.

E io ci sono rimasto appiccicato a questo amore, invischiato nella sua densa melassa, tra iperboliche ascese in paradiso e rovinose cadute all’inferno.

Finisco per darmi dello stupido mentre fumo nervosamente una sigaretta nel buio del mio appartamento all’ultimo piano. È una notte afosa, di quelle che ti tolgono il fiato, una notte d’estate. Tengo le finestre aperte alla ricerca di refrigerio, ma ciò che m’investe è solo un’aria insopportabilmente calda. Così mi stendo nella solitudine del soggiorno, mentre sorseggio l’ennesima birra ghiacciata. Guardo lo smartphone ancora una volta; no, lei non ha scritto, non si è nemmeno fatta viva.

È inutile, non ti pensa né ti cerca, fattene una ragione, mi dico mentre depongo il cellulare quasi con stizza sul tavolino in vetro. Mi affloscio sul divano di design in pelle nera. Pensare di dormire mi sembra una mera utopia, fa troppo caldo, allora mi rilasso tra quei cuscini neri come la notte che avvolge Bologna, oramai assopita.

E mentre i rumori attenuati di un camion della spazzatura finiscono per cullarmi, io mi lascio andare ancora una volta all’onda dei ricordi.

Capitolo 1

 

  • A zonzo avvolti dalla nebbia

 

 

 

La notte era scesa rapida in quella fredda giornata di gennaio dell’83. Una nebbia lattiginosa, come fumo denso nascondeva i contorni della Bolognina, il quartiere dove abitavo. Era sabato sera, e con il Biccio e il Rosso ero sulla mia Renault 4 GL beige. Andavamo a Baricella per ballare al Chicago.

Il Rosso, che mi sedeva dietro, mi passò la canna[1] che aveva appena finito di rollare[2]. Ne tirai due grandi boccate a pieni polmoni, restituendo una fumata dall’inconfondibile aroma che riempì presto l’abitacolo.

«Allora, Lungo? Hai davvero rotto con la Monica di Modena?», mi domandò il Rosso.

«Sì, abbiamo rotto. Anzi, mi ha mollato lei, la stronza», replicai lapidario mentre passavo la canna al Bicciardi, detto il Biccio, che mi sedeva a fianco.

«Mi dispiace, Lungo, e guarda che sono sincero», mi assicurò il Rosso.

Alzai le spalle per dire che non me ne fregava, e invece me ne fregava, eccome se me ne fregava, ma non volevo darlo a vedere ai miei amici.

Il Biccio, che di nome faceva Mauro ed era un ragazzone grande e grosso con una testa riccia di capelli lunghi, mi diede una pacca sulla spalla, bella forte.

«Ben fatto, caro, così adesso sei libero come noi, sei un uccellino fuggito dalla gabbia pronto a scopare altre passere[3], che bella notizia.» Rise sguaiatamente mentre tirava grandi boccate dalla canna. Al Biccio non mancava certo l’intelli-genza né l’arguzia tipica dei contadini della bassa bolognese, ma di sicuro non aveva l’educazione di un lord inglese. I suoi modi un po’ rudi erano la corazza di un animo molto sensibile e generoso, e io, che avevo imparato a conoscerlo, col tempo avevo finito per adorarlo.

Io e lui ci eravamo conosciuti una sera d’estate durante una delle mie scorribande in bicicletta da nonna Ada, dove mamma portava spesso me e mio fratello più piccolo durante le vacanze scolastiche. Nonna Ada, vedova di guerra, viveva in una grande palazzina di nuova costruzione a Castelmaggiore, paese della Bassa Bolognese, là dove i campi coltivati lambivano i primi abitati e dove i segni del grande boom economico, in quei primi anni Sessanta, emergevano anche nella provincia modificando per sempre il panorama urbanistico delle campagne.

Il podere che confinava con la casa di mia nonna era proprio quello dei Bicciardi. Una sera di giugno, complice il grande caldo, dopo aver cenato ero sgattaiolato con la bici tra i campi coltivati vicino a casa. Ben presto, stanco di pedalare, mi ero messo per noia a tirare sassi nel grande stagno popolato dalle rane, che era dentro alla proprietà dei genitori del Biccio. Ero talmente preso a scagliare sassetti arrotondati nell’acqua melmosa da non accorgermi che lui e i suoi amici, cavalcando le loro biciclette, mi erano arrivati alle spalle.

«Ehi, tu! Smettila, che stai facendo? Mi spaventi tutte le rane, vattene dal mio stagno.»

Mi girai di scatto: un bambinone dalla testa riccia, tutto paonazzo in volto, buttata giù la bicicletta, mi veniva incontro con bellicosi propositi. Appena si avvicinò mi spinse, senza tanti complimenti, così forte da farmi finire in acqua. Il Biccio e i suoi amici risero e, quando mi videro tutto zuppo guadagnare la riva, cominciarono a prendermi in giro.

Le loro risa di scherno mi fecero avvampare dalla rabbia: mi scagliai con tutta la forza contro il mio grosso avversario roteando i pugni. Finì che ce le suonammo di santa ragione, lì sull’argi-ne dello stagno, e io rimasi, con mia grande sorpresa, vincitore quando un mio pugno del tutto casuale lo colpì sul naso facendolo sanguinare.

Alla vista del sangue il Biccio piagnucolò spaventato, mettendosi poi a correre verso casa. Quando mostrai i pugni anche ai suoi amici in segno di sfida, quelli si dispersero velocemente pedalando fuori dalla mia vista.

Tornato di corsa a casa tutto pesto e bagnato, mi buscai una bella ramanzina da nonna che mi costrinse, molto arrabbiata, a raccontarle tutto l’accaduto. Il giorno dopo, nonna Ada mi trascinò per un orecchio a casa dei Bicciardi per chiedere scusa per la violenta baruffa. Finì che io e il Biccio facemmo pace e da quel momento diventammo, come spesso capitava tra ragazzini, inseparabili.

«Falla finita, Biccio, e passa anche a me quella canna che me la finisci tutta», lo apostrofò il Rosso per non sottostare all’immancabile destino di doversi tirare il filtrino e poco altro quando non era lui ad accenderla.

Il Rosso, che di nome faceva Renzo Gazzotti, era rosso di capelli e di passione, ed era il mio compagno di scuola fin dalle elementari. Eravamo nati lo stesso anno, io in marzo e lui in luglio, e abitavamo nella stessa via, a pochi civici l’uno dall’altro, alla Bolognina. Le nostre strade a livello scolastico si erano divise quando, finite le medie, io scelsi il liceo Scientifico e lui le scuole tecniche. Di fatto la nostra amicizia non ne aveva risentito, almeno fino al conseguimento dell’ago-gnato diploma: mentre io mi ero iscritto all’Uni-versità nella mia città, il Rosso era partito per la naia. Quell’anno di servizio obbligatorio in divisa lo aveva cambiato nel profondo. Per superare le frustrazioni della vita militare e i soprusi del nonnismo subito in caserma era diventato un cannaiolo impenitente. E non aveva più smesso.

Appena ci inoltrammo nel cuore della campagna, il buio e la nebbia finirono per inghiottirci completamente e la guida divenne difficoltosa.

«Maledetta nebbia!», sbottai, «Non si vede nulla, zio prete.»

«Stai calmo, Lungo. Tieni, fatti una tirata», mi suggerì il Rosso passandomi un’altra canna.

Il Biccio, preoccupato di rimanere senza niente, sbuffò contrariato. «Oh! Lasciatemene un tiro, ragazzi.»

Fumavo nervosamente mentre guidavo a naso in quel nulla niveo, fidandomi più del mio istinto che di quel po’ di strada che supponevo di intravedere.

Finalmente, dopo un viaggio che parve eterno, arrivammo a Baricella. Imboccata la via Pedora l’insegna del Chicago[4] ci accolse e guidò come un faro fino all’ingresso del locale.

Entrati nella affollatissima discoteca, la musica subito ci avvolse calda. In consolle come al solito c’erano i due DJ resident. Oltrepassammo il bar per dirigerci al lato destro della pista, dove c’era la seconda scala che portava su alla galleria. Lì vicino incontrammo tutti i ragazzi della mia comitiva “la compagnia dei bolognesi”, come presero a chiamarci coloro che venivano da altre città. Tanti, ragazzi e ragazze, così diversi tra loro ma uniti come non mai; ragazzi con tanti sogni in testa, con la voglia di cambiare, forse tutto, forse niente, tante speranze, così tanta vita ancora……………

[1] Con questo termine si indicava lo spinello per eccellenza, spesso fatto con hashish.

[2] Nel gergo del periodo voleva dire “confezionare uno spinello”.

[3] Ragazze.

[4] Nata dalle ceneri della vecchia discoteca Pap, era a Baricella nella bassa Bolognese. Divenne per elezione la mia discoteca. La mia seconda casa.

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“I RAGAZZI DEL COLUMBUS”

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Oggi posso dire che sono arrivato alla fine della strada, certamente quella più difficile . Quella della pubblicazione e del giudizio del pubblico. E’ da qualche giorno che ho per le mani il mio romanzo finalmente finto. L’ho riletto d’un fiato più e più volte spesso chiedendomi se lo avessi scritto io. Ancora non mi rendo conto che sono riuscito a raccontare tutto quello che avevo in mente e nel mio animo. Una cavalcata lunga ben  220 pagine che mi ha portato con i miei personaggi ad affrontare la più bella avventura su carta della mia vita. Notti intere curvo sul computer a scrivere in mezzo ad un mare di emozioni e sentimenti contrastanti come preda di una forza che mi spingeva ad andare avanti. Ed ora eccolo. Come un bimbo che sta in piedi da solo pronto a camminare con le sue gambe.  Grazie di cuore  al mio Editor.  A Mara Fontana il cui prezioso e costante lavoro ha fatto si che crescessi come scrittore. A lei devo tantissimo e qui la ringrazio di cuore. Grazie a Luca Donati per la foto  di copertina frontale  e al grande maestro fotografo  Fredi Marcarini per il  ritratto stupendo e alla sua arte potente. ed in fine un grazie a Marco Savarese  Editore della rivista fotografica “Eyeshot street Photography magazine,” per la grafica della copertina. E Sopratutto un enorme grazie a tuti voi. Sì a voi della tribù perché senza di voi non avrei intrapreso questo viaggio.  Avevo fatto alla tribù una promessa ora questa promessa è sciolta. Ora tocca a voi ragazzi fare sentire la vostra voce. la Voce della tribù. Fatevi sentire perché ora abbiamo un segno tangibile, un libro che ci racconta per  lasciare una traccia indelebile nel tempo. Noi eravamo, siamo stati, e siamo ancora oggi.

 

Una Tribù bellissima.

 

Ricordo: IL Columbus

Il ricordo. E’ l’unica cosa che ci rimane di noi nel passato. Impalpabile ma così vivo nella nostra mente. A volte sfumato come se emergesse senza contorno da una nebbia lattiginosa. A volte nitido come una rasoiata tagliente che squarcia le tenebre con una luce vivida quasi accecante. I ricordi non sono fatti solo di immagini ma a volte sono solo suoni, odori , colori che ti riportano come una chiave magica nel passato. Ti ricordano ciò che eri, che sei stato, ciò che hai vissuto. A volte i ricordi sono piacevoli a volte dolorosi, tanto dolorosi da farti piegare sulle ginocchia. Sì perché alcuni di questi ricordi fanno male, tanto male. Ce ne sono fortunatamente di belli. Quelli della giovinezza. Spensierati. Felici. Si liberano nell’aria leggeri come leggeri eravamo noi. E io li associo a luoghi specifici dove ho vissuto quella giovinezza. Ci sono luoghi evocativi, pieni di senso magico e significato. Sono luoghi che gelosamente racchiudono tutta la ritualità di un’intera generazione di ventenni. E l’unico luogo davvero aggregante, per me, al di la del posto da cui provenivi o della discoteca che frequentavi è stato il Columbus. Non è mai esistito un luogo più evocativo di questo. Un luogo conosciuto da tutti e da tutti frequentato. Divenuto il simbolo che meglio ci identificava come generazione di Baiosi tanto da sedimentarsi nel nostro immaginario collettivo. Se era vero ed è vero allora che noi avevamo e abbiamo avuto un luogo della memoria che ci identificava tutti. Allora è vero che in noi c’era molto di più. Tanto di più. Noi non eravamo un accozzaglia di ragazzi senza ideali alla ricerca del solo ed effimero divertimento. Ma eravamo una vera e propria Tribù con regole non scritte e definite con tutte le caratteristiche di un intero popolo. Una meravigliosa Tribù di cui nessuno ha mai raccontato usi , regole, e costumi, ma che di fatto ha segnato in maniera incontrovertibile un’ intero decennio e intere generazioni. Il Columbus per me ha questo significato importante e profondo. Peraltro mi piacerebbe tanto conoscere quale è nel vostro cuore il vostro luogo simbolico un po’ magico. Quello che vi ha segnati e che vi connota di più. Quello che al solo ricordo vi fa fare un tuffo al cuore. Quello che vi porta là nella terra dei ricordi dove la nostalgia fa più male. Là dove ritrovi volti conosciuti e mai dimenticati. Là dove speri di rivedere due occhi che ti sorridevano, e che prendendoti per mano ti portavano via, in alto tra le stelle, incoscienti come giovani meteore indifferenti a tutto.

SILVIA : un pensiero a tutti coloro che hanno attraversato la nostra vita e dei quali non abbiamo più avuto notizie

Qualche giorno fa sul mio gruppo ” Noi del Typhoon a Gambara”è stata pubblicata, dall’amica Anna Tonti, la foto di Silvia al Columbus. La foto la ritrae sola, con il bel viso che sembra imbronciato, e che forse trasmetteva solo stanchezza, stanca come poteva essere una ragazza piena di vita come lei dopo una notte insonne, che, nella bellezza dei suoi vent’anni non c’era mai posto per risparmiarsi. Perché in quel periodo, di certo, non è che si dormisse poi tanto. Anzi il dormire e il riposare era l’ultimo dei nostri pensieri, perché c’era tanto da provare, da vivere da assorbire. Silvia Abitava a Casalecchio un paese appena fuori Bologna. Frequentava la nostra “Compagnia quella dei Bolognesi”. Lei così piena di vita, sempre sorridente, pronta allo scherzo, le piaceva stare in mezzo a noi maschietti a ridere, a prendersi in giro, a tenerci testa con quella sua lingua sagace e pungente. Bella lo era Silvia davvero, con quei capelli ricci , con quelle sue labbra carnose e quegli occhi grandi, così vivaci così veri. Era davvero una bella ragazza con un carattere un po’ da maschiaccio che forse usava come una corazza per nascondere la sua sensibilità. Ricordo che mi divertivo tanto a parlare e scherzare con lei. La nostra era solo una bella amicizia fortunatamente tranquilla. Di lei ricordo i non stop al Typhoon,  le lunghe giornate al Columbus, le serate al Chicago, la festa dell’ultimo dell’anno. Già la festa dell’ultimo dell’anno del 1982. Me la ricordo Silvia mentre si divertiva ad infilare Luca di Cremona in un grosso cartone per poi letteralmente lanciarlo giù dalle scale che collegavano quel grande ingresso tipico delle case contadine con il piano superiore. Appena Luca ruzzolava di sotto Silvia lo richiamava su. E allora Luca arrivato di nuovo in cima alla scala si infilava nel cartone per poi essere spinto da Silvia di sotto. Il scivolare di Luca  su quelle scale a mo di Bob provocò in noi divertimento e ilarità. Andarono avanti in questo buffo gioco per un bel po’ tra risate di puro divertimento. Eravamo tutti spiriti liberi e ci divertivamo veramente con poco. Momenti stupendi. Ricordo il giorno, in un caldo agosto a Riccione, quando Silvia voleva a tutti i costi guidare la moto nuova di Paolo. Una Kawasaki nera 650 custom della quale Paolo era giustamente geloso. Silvia lo tormentò per tutta la mattinata al Columbus per fargliela guidare. Alla fine Paolo cedette e Silvia partì a gran velocità con Paolo caricato dietro. Fece pochi metri perché un’auto che voleva accedere sul lungomare da una laterale sbucò all’improvviso. L’incidente fu inevitabile. Io fui tra i primi ad accorrere perché ero tra quelli che aveva seguito tutta la scena. Fortunatamente erano appena partiti e l’unica a rimetterci fu la moto le cui forcelle si piegarono inevitabilmente nell’impatto con la fiancata con l’auto. Io dovetti tenere Paolo perché voleva menare il conducente dell’auto, e io che allora guidavo una vespa lo capivo perché spesso le auto non ti rispettavano e anche io avevo corso il rischio di farmi male tante volte. Silvia era spaventata e dispiaciutissima. Si sentì in colpa. Ma Paolo fu bravo a non fargliene una colpa. Paolo corse a casa con la moto come meglio poté e ritornò subito in auto. Perché non si poteva rovinare un’estate bella come quella dell’83.

Dopo il periodo Baioso. Quegli anni così pieni, Io non ho più rivisto Silvia. Sono trascorsi tanti anni e nemmeno l’avvento dei Social, nonostante io avessi provato a chiedere sue notizie in giro, me lo ha fatta ritrovare. Io spero che abbia una bella vita e che stia bene. Ci sono tante persone che hanno attraversato la nostra di vita. Che hanno significato qualcosa per noi. Io spero sempre che stiano bene e che la loro di vita continui a splendere come erano splendidi tutti loro nella meraviglia dei venti anni.