Goliardate al Columbus

Al Columbus le goliardate erano all’ordine del giorno, c’era sempre qualcuno che si inventava qualcosa. C’erano ragazzi e ragazze da ogni dove che sciamavano a tutte le ore del giorno, era una Woodstock perenne in attesa della sera momento clou della giornata dove si decideva dove si sarebbe passata la notte. Logico che per forza essendo tutti lì si finiva per conoscere un sacco di persone almeno di vista e se non ne conoscevi il nome ne conoscevi di sicuro il soprannome che praticamente ognuno di noi aveva. Capitò un tardo pomeriggio che al piazzale arrivò uno spazzino in divisa con quei tricicli così particolare che avevano sul davanti quel bidone grigio in plastica della spazzatura. Parcheggiò quasi davanti al bar Columbus e vi sparì dentro probabilmente per rifrescarsi dalla calura agostana. Youx, un ragazzo dai capelli corti probabile retaggio della naia, occhietti furbi e sguardo sveglio si avvicinò allo strambo mezzo e aprì il bidone che era vuoto. Orbene il bidone fu preso portato in mezzo alla passeggiata, più o meno a metà e Youx come se nulla fosse ci si infilò dentro richiudendo il coperchio per uscirne dopo poco tempo a mo’ di pupazzo a molla per spaventare le malcapitate di turno che passavano di lì. Il giochino riuscì così bene che in poco tempo si radunò una folla di curiosi chiocciante che non vedeva lora di vedere Youx all’opera. Lo spettacolo durò comunque poco poiché appena lo spazzino uscì dal bar dopo una mezz’oretta, Youx rapido glielo riportò dicendogli che dei ragazzi lo avevano sottratto per dispetto. Le ora quando sei giovane scorrevano piacevolmente lente, eri in ferie, nessuna preoccupazione, toccava a vote inventarti qualsiasi cosa per fuggire dalla noia che arrivava. Goliardate appunto, per ridere, per divertirsi in modo innocente, eppure quel momento mi si è stampato in mente, così ricordo e sorrido, è stato davvero bello in modo assurdo. Ricordo e sorrido tra me, la libertà era anche questo, divertirsi con poco, lasciando libera la fantasia, una grande voglia di vivere e basta.

Bastava un paio di Clark …

Bastava.  Quando la sera mi preparavo per andare a ballare indossavo una Fruit bianca, una camicia di jeans che lasciavo un po’ aperta sul davanti per fare vedere la T shirt, poi un paio di jeans a tubo stretti con una bella cintura in cuoio magari con una grande fibbia, e poi infine loro le mie immancabili Clark beige ai piedi. Bastava, sì! Bastava per sentirsi parte di un qualcosa di più grande e per me importante. Il sabato sera non vedevo l’ora di uscire per andare al Chicago, per me che sono Bolognese e che avevo la fortuna di averlo relativamente vicino a casa. Bastavano un paio di Clark ai piedi per salire sulla mia R4 GL beige e poi partire. Sognare quasi. Mettermi sulla strada, mentre i fari davanti a me illuminavano quella stretta striscia di asfalto che tagliava come un serpente nero la pianura bolognese tra infiniti campi di grano e granturco. Bastava solo questo fatto per sentirmi libero come non mai mentre saliva l’eccitazione, l’emozione di rivedere gli amici e forse due occhi profondi quelli della tua lei che speravi che sarebbe venuta al Chicago con le sue amiche. L’ultima telefonata nel pomeriggio, chiuso dentro ad una cabina e fuori tutto il mondo che continuava a galoppare lontano. Ecco suona, perché ci mette così tanto a rispondere? Dai tira su ti prego. Pronto ah ciao… come stai? Vieni poi al Chicago?… Sì? Ed era tutta lì la felicità della serata nella risposta positiva di quella domanda, che facevi a lei. Lei che abitava così lontano, che parlava con accento diverso dal tuo e che il solo sentirla, faceva sobbalzare il tuo cuore. Rivedersi per stare poi soli sui gradoni della galleria, carezze e baci, cosa altro mai avresti voluto se non questo per sentirti libero. Vivo. Parte di un mondo che pulsava assieme alla tua anima e ti faceva sentire attorniato dalla magia. Poi c’erano quelle sere con gli amici, sempre presenti, importanti, fondamentali e preziosi con i quali condividere quasi tutto. Ballare, tutti insieme, in cerchio con le ragazze attorno alle borse in centro fino a non avere più fiato. Fumare radunati su in galleria, una canna dopo l’altra, finendo per ridere tutto, di cose stupide pure, fregandosene del mondo che ti aspettava il lunedì per soffocarti con la sua routine. Ma intanto era sabato e questo bastava per sentirsi vivi e liberi ascoltando musica stupenda per respirare la vita dei tuoi venti anni. Bastava eccome se bastava. In fondo anche questo era sentirsi liberi. E voi amici miei della tribù, a quali scarpe eravate affezionati per sentirvi liberi ?    

Un grosso grazie a tutti “I Ragazzi Del Columbus”.

C’era un ragazzo che seduto su un muretto nutriva sogni speranze come ogni ventenne di quel periodo. Mai avrei pensato che quel mondo che stavo vivendo, così fresco, pieno di vita, colorato e chiassoso e nel quale ero immerso avrebbe costituito motivo per scriverne ben 35 anni dopo quando nel Novembre del 2018 pubblicai sulla piattaforma KDP di Amazon il romanzo “I Ragazzi del Columbus”. Questo romanzo è nato di prepotenza, scritto di getto in soli tre mesi, era qualcosa che mi si era sedimentato dentro che non potevo più tenermi dentro che doveva esplodere. Qualcosa grande come un Oceano che sussurrava nella risacca le parole che andavo componendo sullo schermo del mio pc, scritto col cuore in un tumulto di sentimenti. Mai mi sarei aspettato un successo così importante e colgo l’occasione per ringraziare pubblicamente tutti voi, sì voi cari lettori, popolo della tribù e non solo che avete sempre creduto in me fin da quando ho aperto i gruppi su Facebook e poi su questo Blog medesimo. Se il libro ha avuto il successo che ha avuto ed ha camminato con il passa parola è per merito vostro che lo avete acquistato e poi letto, prestato, regalato, vissuto, sfogliato, amato, letto e qualcuno so riletto. Ora mi ritrovo emozionato alla vigilia della Pasqua attendendo la pubblicazione del mio secondo romanzo per Edizioni Minerva “A Est Del Nulla”. Questa sete di scrivere non si è ancora placata ed è merito vostro. Io non so se amerete i miei personaggi di questo nuovo e divertente romanzo. So solo che dentro c’è tanto dell’essenza di quel ragazzo che seduto su quel muretto, lì al Columbus, sognava cullato dal ritmo della musica e dal vociare vivo di tanti altri ragazze e ragazzi che come lui sognavano assieme e il mare mormorava invidiando la nostra giovinezza. Un abbraccio a tutti voi Ragazzi e Ragazze del Columbus.

Sinossi A Est del Nulla

Bologna. La vita monotona e infelice del poco più che trentenne Felice è sconvolta, una mattina, da un corpulento essere dagli inquietanti occhi rossi che gli piomba letteralmente in casa.

Dopo averlo terrorizzato per bene, con modi gentili e squisitamente formali si presenta: il suo nome è Concupiscenza, per tutti Enza, angelo al servizio del dio Eros, mandato sulla terra per aiutare il protagonista a guarire dall’inesauribile mal d’amore.

Incredulo e alquanto scettico sul presunto mal d’amore, Felice è convinto di avere le traveggole, così, per sbarazzarsi di Concupiscenza, decide di andare in analisi dal dottor Alcofibras.

Enza, tuttavia, non è pronto a mollare: è la sua ultima occasione per riscattarsi agli occhi di Eros e riprendere il suo posto in paradiso. Per cui, essendo visibile solo a Felice, al fine di convincere l’analista della sua esistenza gli mette a soqquadro lo studio durante l’ultima seduta.

Convincere Alcofibras persuade Felice di non essere pazzo, così inizia a dare ascolto all’angelo e si fa trascinare alla ricerca della donna misteriosa che, secondo l’infallibile logaritmo informatico del Paradiso, pare sia la causa del suo mal d’amore.

Da quel momento, il goloso e irruento Enza lo coinvolgerà in rocambolesche ed esilaranti avventure che condurranno Felice alla ricerca del suo vero e unico amore perduto: Maria, la donna con cui aveva convissuto prima che lei lo lasciasse a causa di una sua scappatella.

Felice ed Enza, seguendo le tracce della donna, giungono a Karpathos, stupenda isola greca, dove finalmente Felice avrà il coraggio di chiederle perdono, senza aspettarsi niente visto che Maria ha un altro uomo, Stavros, l’unico ostacolo alla guarigione di Felice e alla riabilitazione di Enza agli occhi del Paradiso.

I Ragazzi del Columbus

Dedicato a tutti voi

Capitava di stare sul muretto a fumare, chiuso nei miei pensieri, momenti stupendi dove l’unica mia preoccupazione era non fare assolutamente nulla se non dedicarmi all’osservazione di ciò che mi circondava, perdermi nell’ascolto del vociare dei ragazzi e delle ragazze, il sottofondo della musica, Paranà di Airto, che veniva fuori dagli stereo delle Dee DS, l’odore forte di patchouli che era frammischiato a quello del marocchino nelle canne o nei cilum. Sembrava di stare al Gran Bazar di Istambul, con lo stesso chiasso scomposto, gli stessi colori e odori speziati la stessa folla viva che si agitava con i suoi sorrisi e sguardi più veri e sinceri. Ci arrivavo a pomeriggio inoltrato al Columbus quando il sole, aranciato nei suoi raggi più caldi, colorava il piazzale mentre la brezza marina alleviava un po’ la calura di agosto. Allora me ne stavo lì col culo appoggiato a quel muretto, le gambe incrociate, i piedi scalzi, perché avevo rotto l’ennesimo paio di ciabattine indiane, palme nere di carbone, fruit bianca Camel in bocca a spostarmi veloce una ciocca ribelle dei miei lunghi capelli ricci. Occhi che si riducevano a due fessure per sopravvivere a quella luce tagliente che riempiva la scena possente nella sua calura. Nello stare lì in quel momento sentivo salirmi fin dentro le mie viscere, nel pulsare del sangue e del mio cuore che sincopato seguiva il ritmo di Amor en Jacuma di Dom Um Romao, un sentimento di appartenenza a quei ragazzi e quelle ragazze che animavano quella mezza crescente di asfalto che era il Piazzale Roma. Le ragazze… Che belle che eravate voi ragazze… l’Amore rivelato, il sesso più intrigante e appagante, voi che donavate voi stesse, regalo più bello, con il rossore che saliva a colorare le mie guance per la timidezza, al solo incrociare i vostri sguardi… E io che non ebbi mai il coraggio di dirvelo che eravate belle e che stupido che sono stato a non averlo fatto. E poi i ragazzi… Così pieni di vita e amicizia, con i quali potevi stare ore a parlare di tutto e nulla senza problemi, che stavano con te che nulla avevi e che ti accettavano per quello che eri, che non facevano mai domande imbarazzanti, che dividevano anche il poco che si aveva che stavano con te anche solo per ascoltare musica assieme e fumare sulle note struggenti di Sketch for summer dei The Durutti Column. In fin dei conti si riduceva a una stretta di mano piena tra pari, a due occhi che ti guardavano sorridendo, a due labbra morbide e dolci come le pesche rugiadose appena mature, a un cuore di fratello che divideva tutto a una carezza timida, ad un bacio rubato lì su quel muretto che era tutto per noi. Casa, rifugio, ritrovo, camera da letto, bar, cucina, bagno insomma Il Columbus era il tutto che riempiva la nostra giovane esistenza. È vero fumavamo e ci facevamo le canne, perché negarlo, faceva parte del nostro io… Un po’ di sballo lo ammetto, mi piaceva pure, faceva parte almeno per me, di un modo musicale di seguire la corrente, di lasciarsi andare con gli altri, un mood interiore, difficile da spiegare insomma un Umbarauma come cantava Jorge Ben. Fumavo la mia Camel e guardavo la mia tribù e ne percepivo l’energia che emanava in quello spazio, c’era la forza della giovinezza, l’energia della spensieratezza, e ora so il perché… Mi ci è voluto tempo ma ci sono arrivato. Eravamo liberi come non mai, vivevamo ed è questo che ci ha segnato tutti noi. Abbiamo vissuto la vita con animo colmo di gioia prima che le abitudini insopportabili, la routine, il lavoro, la pena straziante di fare tutti i giorni la stessa cosa avvelenasse il nostro spirito ed il marciume della vita cercasse di soffocare la nostra vitalità. Il bello è che il marciume non c’è riuscito a sporcare tutto, forse si è preso una parte di noi ma quella vitalità che ne era profusa a piene mani su quel muretto è rimasta immutata dentro di noi, custodita gelosamente nei nostri cuori. L’ho scritto nel romanzo noi eravamo altro, diversi in tutto e per tutto, liberi e dobbiamo esserne orgogliosi per quello che siamo diventati. La tribù, per me, è stata la mia famiglia allargata, la mia vera casa, i fratelli e le sorelle che non ho avuto, il sole che ti riscaldava e poi l’amore, tanto amore… Eravamo e siamo e la strada, per quelli come noi che l’hanno sempre macinata, sarà ancora lunga… E per sempre… magari ascoltando Our Roads di Lee Oskar.
Ciao Tribù… Ciao Ragazzi del Columbus.

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Il viaggio : Parte seconda

Tornammo alla Ds che ci aspettava burbera e che sembrava che ci guardasse di sottecchi con i suoi fari tondi.  Guidammo fino a Lazise e trovammo con difficoltà un posto per la Dea in fondo al parcheggio. C’erano un sacco di ragazzi e ragazze che si affollavano tutto intorno al Cosmic. In tutte le discoteche Afro uno dei luoghi più affollati in assoluto era il parcheggio e il Cosmic non faceva certo eccezione. C’era di certo più gente fuori che dentro anche se quella discoteca era divenuta ben presto famosa, un mito per tutti noi ragazzi dai capelli lunghi, e lo era non solo per come era fatta la discoteca, con il suo tunnel circolare d’ingresso, le colonne con le luci colorate o per il fatto che la consolle era stata infilato prima dentro un casco d’astronauta e poi in una astronave, ma soprattutto per la musica stupenda che si suonava. Uno dei fatti che ci spingeva a restare fuori era la carenza cronica di denaro per cui ci si accontentava di esserci. Io ero studente Universitario e dovevo sempre chiedere il denaro ai miei praticamente per tutto, cosa alquanto imbarazzante per me il dovere chiedere e il non essere autonomo. Gli altri tre miei amici avevano acquistato l’indipendenza economica tempo fa, lavoravano tutti e tre, ma non nuotavano di certo nell’oro. Il Rosso spendeva gran parte del suo stipendio in stecche di fumo e cannoni, poco altro gli interessava, e il fatto di condividere sempre senza mai chiedere nulla faceva parte della sua filosofia di vita. Per il Rosso il vero godimento era fumare una canna seduti in cerchio con più persone con l’unico scopo di passarla al vicino in un rito ancestrale di comunione. Il Biccio oltre a sperperare il suo magro stipendio in alcool e sostanze strane buttava via i soldi per soddisfare il suo edonismo in gadget o vestiti inutili spesso dai colori sgargianti che finivano relegati immancabilmente nel chiuso del suo guardaroba. E poi c’era Zanna la cui croce e delizia era la sua DS azzurra che costava tanto a mantenersi, tra frequenti riparazioni e manutenzioni. Così squattrinati e scapestrati come eravamo spesso ci trovavamo ad avere i soldi per il viaggio ma non per entrare, trascorrevamo l’intera serata nel parcheggio a bighellonare in giro  o se eri molto fortunato e avevi trovato una ragazza che ci stava, nel campo di granoturco di fronte al Cosmic a limonare. Ma quella sera non era “una di quelle sere lì”, così rimanemmo a girovagare nel parcheggio e davanti all’entrata del Cosmic.  Tra una chiacchiera tra facce conosciute, nuove conoscenze nel mischiarsi dei dialetti e delle cadenze, finimmo per mischiarci anche noi quattro. Ci disperdemmo. Zanna, fortuna per lui, ritrovò la Modenese che era lì con le sue amiche, era venuta su, secondo me per incontrare proprio lui. Io ben presto mi sottrassi al chiacchiericcio che ci coinvolse non che le ragazze di Modena non fossero carine badate bene, semplicemente non ce n’era nessuna che mi avesse colpito in modo particolare essendo io di gusti difficile a sentire i miei tre sodali e amici. Ripresi quindi a vagare con una scusa banale senza una meta tra la folla lasciando i tre miei amici con le ragazze. Mi fermai a fumare con la schiena appoggiata al DS di Zanna osservando tutto quel brulicare di vita giovane tra gli alberi e le auto del parcheggio. Il loro scalpicciare sulla ghiaia produceva un rumore curioso che si mischiava al vociare incessante e al continuo via vai, era tutto molto vivo e stimolante soprattutto per la grande quantità di belle ragazze. Era piacevole essere lì, in quella sera, in quel luogo, su quel palcoscenico di vita giovane, bastava esserci per esserne contenti. Faceva caldo ma spirava una piacevole brezza che trasportava un sottofondo di musica afro che finiva per avvolgere tutta la scena. Ad un tratto un viso noto salutandomi mi sorrise. Era Carlo di Vicenza che era assieme ai suoi amici. Ci eravamo conosciuti un pomeriggio al Columbus quando lui e alcuni suoi amici avevano abbordato delle ragazze della nostra compagnia, quella dei “Bolognesi”. La commistione, la mancanza di barriere tra noi ragazzi, il senso di inclusione, di curiosità e la mancanza di un preconcetto alla base del nostro agire fece il resto. Finimmo ben presto mischiati vicentini e Bolognesi e viceversa, perché i confini esistevano magari sulla carta ma non certo nella nostra testa. Carlo aveva, lunghi capelli castani, lisci, occhi scuri e profondi, naso regolare e mento volitivo era sicuramente un bel ragazzo. Studente universitario frequentava il secondo anno alla facoltà di architettura a Venezia, con lui condividevo lunghe chiacchierate che disquisivano dei massimi sistemi che regolavano la vita, ma soprattutto di ragazze come fosse logico per noi.

«Ciao Lungo.»

«Ciao Carlo.»

Il mio amico si appoggiò di fianco a me sulla DS di Zanna.

«Sei entrato?» domandò.

«Stasera no! Siamo un po’ a corto di lira, ma non è poi male nemmeno il parcheggio», risposi

«Anche io sono al verde proprio» precisò Carlo.

«Come vanno gli esami?»

«Bene dai. Ne ho uno grosso a luglio per gli appelli e tu?»

«Anche io a luglio ne ho uno importante. Storia dell’Italia.»

«La seconda guerra mondiale?»

«No magari. Il Risorgimento. Una palla al piede. Poi dopo ho storia del Giappone con uno studio sugli Zaibatsu. Economia. Pure peggio.»

«Non ti invidio Lungo ma se ti può consolare io ne ho uno di strutture.»

«Io non ci capisco nulla di Strutture» Asserii sorridendo.

«E io di Zaibatsu.»

Ci guardammo e scoppiammo a ridere di una risata piena.

Ce ne stavamo lì a fumare e guardare il via vai, in silenzio, non si stava poi così male anche senza fare nulla di nulla, credo fosse per una prerogativa dell’essere giovani, fare nulla e farlo bene non sentendosi mai in colpa per qualcosa. Uno stato di grazia davvero. Si poteva stare bene assieme così condividendo il tempo, lasciandolo andare per conto suo senza affanno, senza correre dietro a nulla, era appagante e rilassante al tempo stesso. Guardavo le ragazze e basta senza fare nulla, non che quando ne notassi una carina non mi sarebbe piaciuto in teoria muovermi da lì per magari andare a conoscerla, ma francamente stavo così bene nella mia “confort zone” che non feci nulla di nulla. Consumavo il tempo ma non era spreco, né cattiva attitudine o pigrizia, solo ti lasciavi andare senza pensieri, senza doveri, senza ansie vivendo e basta senza inseguire lasciandoti spazio per le sorprese che a vent’anni non mancavano mai chissà perché, come le opportunità. Andava bene così per una volta e niente feci se non perdermi in chiacchiere con Carlo. Quando i miei amici tornarono a recuperarmi mi presero in giro per essermi eclissato dalle modenesi, dicevano che ero orso ed era in parte vero.  Andammo a dormire a Lazise in un giardino comunale con i nostri sacchi a pelo. Ancora non sapevamo che quella felicità nella quale eravamo perennemente immersi era dovuto alla libertà che era parte del nostro essere. Io non ho mai più provato una sensazione così forte di libertà come allora. Cosa preziosa l’averla vissuta credetemi e dobbiamo farne di tutto per preservarla nei nostri cuori come nel nostro animo. Era una libertà mitigata da un profondo senso di rispetto per gli altri come persone e non come oggetti di possesso. In questo noi eravamo uno spettacolo. Eravamo una generazione sana e bella cosa rara e credetemi, io di questa rarità ne vado fiero. Buone Feste a tutti voi Tribù.

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Il Viaggio

Quello che importa in un viaggio non è mai stata la meta bensì il viaggio stesso. Viaggiando nelle assolate estati nella pianura padana o nei suoi nebbiosi inverni ciò che rendeva magico il tutto a venti anni, oltre che avere capelli lunghi e amici a dir poco unici e strani era il mio nomadismo che era poi quello di tutti gli altri. Se non ci fosse stato il viaggio di mezzo noi saremmo state persone diverse perché era il viaggio, il muoversi in carovane e gruppi, con le nostre auto DS o R4, Diane o 2CV o vespe e motorini a renderci come eravamo, singolari, irripetibili, mai scontati, un po’ zingari, un po’ marinai un po’ indiani anche se in modo unico, autentico.

Asfalto, tanto asfalto, e campi a perdita d’occhio, un oceano di colori che andavano dal verde acceso del granoturco al giallo del grano punteggiato dal rosso dei papaveri. E in mezzo a tutto questo c’era la nostra auto che solcava questo mare verde illuminato dalla luce calda di quel pomeriggio di inizio giugno del 1982 che tutto incendiava. Eravamo partiti da Bologna per trascorrere il sabato sera al Cosmic e passare poi la notte sul Garda. Avevamo deciso di partire per tempo nel primo pomeriggio per fare con calma le strade secondarie tra le campagne della pianura padana al solo scopo di risparmiare i soldi dell’autostrada.  Partimmo verso le 15 quando il caldo era massimo e l’afa avvolgeva tutto in un sudario insopportabile. Ancora avevo in mente la faccia di mio padre, seduto in cucina, a mangiare una fetta di cocomero fresco, appena uscito dal frigorifero, il volto arrossato e tormentato dal caldo in canottiera e con un piccolo asciugamano in spugna avvolto attorno al collo per detergersi dall’abbondante sudore che gli colava in stille da per tutto.  Appena mi vide uscire, pronto per partire, mi urlò dietro divertito che eravamo matti. E aveva ragione. L’auto era rovente e dentro faceva già un caldo pazzesco. Per tutto il viaggio nonostante i finestrini perennemente aperti nella DS azzurra di Zanna non trovammo mai pace dall’afa opprimente. Oltre al mio amico, seduto al posto di guida, c’ero io di fianco a lui, dietro, Biccio e il Rosso. Come solito il Rosso era intento a rullare spinelli con la solita perizia certosina. Così oltre al caldo opprimente che permaneva come una cappa, l’abitacolo era pieno di fumo e noi ne eravamo impregnati a tal punto che i nostri vestiti odorarono di hashish per molto tempo. Mano a mano che macinavamo chilometri parimenti saliva anche la nostra fattanza ed eravamo già in quello stato di benessere generalizzato dove nulla ti importava più figurarsi il caldo. Ridevamo per un nonnulla e il buon umore indotto dalla sostanza regnava sovrana. Il paesaggio attorno a noi non cambiava mai e sembravamo come se girassimo a vuoto, gli stessi paesi, le stesse case da contadini e gli stessi campi, ripetuti quasi all’infinito. Zanna a un tratto si fermò in mezzo al nulla. Eravamo su una strada di campagna in questa pianura piatta priva di rifermenti, persi come eravamo pure noi.

«Dove cavolo siamo?» domandai.

«Boh!» mi rispose Zanna.

«Ma l’abbiamo passato il Po’» tornai alla carica.

«Mi sembra» mi rispose ridendo.

Il Biccio stava pisciando in un fosso seguito dal Rosso sempre con la sigaretta in bocca.

«Guarda quei due» feci notare a Zanna.

A Zanna scappò un altro sghignazzo.

«Ho fame» proferii guardando i due che orinavano mentre la risatina di Zanna che si era trasformata in uno sghignazzo continuato mi contagiò.

«Che avete da ridere voi due scemi» ci apostrofò il Rosso che si stava tirando su la lampo della patta dei pantaloni allontanandosi dal fosso.

«Chi noi? Niente», riuscii a dire balbettando per poi scoppiare in una risata piena.

«Demente» sibilo divertito il Rosso.

«Ma abbiamo passato il Po?» tornai a domandare.

«Ma sei scoppiato?» Mi incalzò Zanna, «hai voglia, da un pezzo, dovremmo essere vicini a Mantova.»

«Cosa aspettiamo allora?» disse il Biccio che era tornato tra i vivi anche lui.

«Forza in macchina allora», ci esortò Zanna.

Ripartimmo ilari proseguendo in quel nulla sconosciuto fatto di pianura padana, mentre la luce del pomeriggio si colorava di arancio, mano a mano che si avvicinava la sera.

Io avevo tirato fuori la cartina dell’Italia che Zanna si portava sempre dietro in auto. Seguii col dito il viaggio fatto sulla mappa. Eravamo partiti da Bologna passando per San Giovanni in Persiceto, Mirandola, Concordia sul Secchia, San Benedetto PO. E ora? Dove cavolo eravamo? Guardavo con avidità fuori dal finestrino e finalmente il primo paese che incontrammo fugò i miei dubbi. Bagnolo San Vito nel Mantovano. Sì! Avevamo passato il Po pensai contento. Mancava poco a Mantova.  Sprofondai soddisfatto sul sedile morbido e fatto come un copertone mi addormentai beato.

«Sveglia!»

Con uno scossone fui risvegliato da Zanna.

«Dove siamo?»

«Dove siamo?» Scimiottò Biccio.

«Siamo a Peschiera» Mi rispose Zanna che mi osservava divertito.

«Che cassa che ho» mormorai.

«Andiamo a mangiare dai!» Sollecitò il Biccio.

«Troviamo una pizzeria sul lungolago» gli fece eco il Rosso.

La fame chimica aveva preso il sopravvento ed eravamo molto affamati, così ci mettemmo a cercare un locale che ci piacesse lungo lago cosa affatto difficile in quel luogo di villeggiatura.

Mangiammo senza quasi fare caso al cibo ordinato presi come eravamo a spararle un tanto al chilo, eccitati per la serata imminente al Cosmic.

Finito di mangiare passeggiammo e ci fermammo su una spiaggetta ghiaiosa là dove il lago faceva un’ansa. Il rosso non perse tempo a rullare qualche spinello. Uno per digerire e qualche altro per il dopo.

«Mi metto avanti col lavoro» disse, «così ho più tempo per le ragazze.»

«Sì le ragazze se va bene saremo talmente fuori che sai le ragazze che fine faranno.» pontificai.

«Ma devi sempre rompere le uova nel paniere tu?» sbottò il Biccio allungandomi un lopez sul braccio. Anche se mi fece male scoppiai in una risata piena.

«Si chiama osservazione della realtà comparata con l’esperienza passata» asserii cercando di essere serio.

«Cavolo dici Lungo. Il fumo ti sta dando al cervello.» sentenziò Zanna.

«Forse per te questo assioma non vale ma per loro…» e indicai col dito indice gli altri miei due amici.

«Lungo vai a quel paese» farfugliò il Rosso che in bocca aveva un filtrino e stava rullando l’ennesima canna.

«Dai Biccio raccontami della volta scorsa che abbiamo fumato tanto come è finita? Ricordate voi due esagerati come vi ho trovato?»

«Dove?» domandò il Biccio aggrottando la fronte come per riordinare le idee.

«Al Chicago. Sabato scorso.»

«Non ricordo» mi rispose il Biccio grattandosi la testa.

«Appunto. Vedete? Te eri in uno stato pietoso con il Rosso su in galleria e con chi eravate?»

«Soli?» sghignazzò Zanna.

«Ecco» rimarcai io.

«Vaffaculo Lungo» smoccolò il Biccio, «C’eravate anche voi due fenomeni.»

«Vero per un po’, poi siamo andati a fare un giro mentre voi due vi massacravate di spinelli. Vero Zanna?»

Zanna fece di sì con un cenno convinto del capo.

«Voi due su e io sono finito a limonare con una tipa di Modena mentre il Lungo era con una ragazza ma non so nulla.»

«Ah! Beh ma voi siete due fenomeni lo sappiamo» aprì bocca finalmente il Rosso.

«Scelte» risposi, «preferisco ancora stare con una ragazza io.»

«E quel sabato sei stato con una ragazza?»

«Che curiosoni che siete.»

«Allora?» mi incalzò il Rosso sempre intento a finire il suo lavoro.

«Ero con una tipa di Piacenza.»

«Niente lingua?» continuò il mio amico

«No! Abbiamo chiacchierato molto. Ma sai ci siamo appena conosciuti, la marco stretto.»

«Allora hai fatto come me e il Biccio. Cioè un cazzo.» e sbottò a ridere trascinandosi nell’ilarità gli altri due.

«Che stronzi che siete e pure zotici» e li mandai a quel paese.

Scoppiammo a ridere. Mi sentivo bene, stavo bene lì su quella ghiaia, senza pensieri e senza problemi che mi tormentavano la testa. Se questa era la felicità ne volevo un pezzo tutto per me. Del resto cosa potevo volere di più, ero libero, non stavo con nessuna, dovevo solo fare la fatica di pensare un po’ a me stesso, godermi l’amicizia di chi mi era vicino in quel momento e poco altro. Respirai a pieni polmoni l’aria che aveva rinfrescato un poco dando refrigerio a una giornata caldissima, papere galleggiavano a pochi metri da noi attratte dal baccano che facevamo, curiose. Tutto era tranquillo e pace e provai una bellissima sensazione come di calore.

Zanna finì di dare l’ultimo tiro alla canna e la schiccherò in acqua disperdendo le papere curiose.

«Dai che andiamo» disse………

Fine prima parte

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 Pioggia Parte 2

…C’era acqua dappertutto e alcune strade si erano allagate. Sceso dall’auto immersi le mie ciabattine indiane in una grossa pozza.

«Se qui è tutto allagato figuriamoci in campeggio» dissi preoccupato.

«Chissà che disastro.» proferì il Biccio mentre andammo a recuperare le vespe. L’aria era diventata pungente, faceva quasi freddo, fortuna che io tenevo sempre una felpa, quella verde, nel bauletto. Caricai il rosso dietro di me e, seguito dal Biccio, tornammo in campeggio. Là era veramente un disastro, tutto era allagato ed era diventato impraticabile.

«Ed ora?» sbottai.

«Qui dormire stasera è impossibile come fare qualsiasi altra cosa», asserì rassegnato il Rosso.

«Che facciamo allora?» Domandò il Biccio

Dobbiamo trovare qualcuno che ci ospiti almeno per stanotte poi domani vedremo» risposi.

«Sì ma da chi?» Chiese il Rosso.

«Da chi non lo so. Io dico di tornare al Columbus e che Dio ce la mandi buona» ipotizzai.

Il Rosso e il Biccio furono d’accordo così tornammo di nuovo al Columbus per vedere di risolvere la situazione. L’acquazzone aveva disperso tanti di noi ma qualche gruppo piano piano era ritornando affollando di nuovo il muretto. Così senza perderci d’animo, parcheggiate le vespe incominciammo a cercare qualche volto amico a cui chiedere riparo per la notte. Decidemmo di dividerci per avere maggiori probabilità. Il tempo passava e io cominciavo a scoraggiarmi e la vedevo dura perché di facce amiche ne incontravo poche e non mi azzardavo a domandare. Ad un tratto una voce conosciuta mi chiamò.

«Lungo!»

Mi voltai era Francesca.

«Che fai? Di nuovo solo?»

«Ciao Francesca. No! sono con gli altri. È successo un vero casino in campeggio. Si è allagato tutto. È tutto bagnato non sappiamo proprio dove andare a dormire per una notte.»

«Mi dispiace» mormorò, poi gli occhi le si illuminarono come attraversati da una illuminazione.

«Se promettete di fare i bravi potreste dormire da noi ragazze abbiamo preso un appartamentino, piccolo ma pulito e decoroso, potreste dormire in corridoio, meglio di niente no?»

«Grandioso», dissi con entusiasmo, «avviso gli altri, aspettami qui Francesca.»

Corsi ad avvisare il Rosso ed il Biccio e assieme tornammo da Francesca che ci aspettava poco distante. Dopo aver presentato i miei amici tutti e quattro andammo a cercare le sue amiche. Francesca mi fece cenno di aspettare un attimo appena le scorse tra la folla. Confabulò un po’ poi tornarono tutte e quattro assieme.

«È fatta! Stanotte dormirete da noi» ci comunicò raggiante Francesca.

Seguirono le presentazioni tra tutti. Le sue amiche si chiamavano: Chiara, Cinzia, Mara. Le ragazze avevano preso in affitto un appartamentino a Rivazzurra un po’ fuorimano dal lungomare, ma costava il giusto e non era affatto male. Erano tutte di Reggio Emilia erano partite il primo di agosto come noi ed erano venute con la Diane rossa di Mara. Avevano tutte circa 18, 19 anni. Erano carine, non grandi bellezze, ma carine lo erano di certo: Mara era bionda con lunghi capelli ricci, efelidi e occhi azzurri, Chiara e cinzia castane con capelli lunghi lisci, occhi scuri e pelle ambrata. A fisico erano messe bene, erano di sicuro tutte e quattro ragazze che se la sapevano cavare con i ragazzi senza problemi. Si instaurò tra noi un clima rilassato e divertente. Il Rosso poi mise d’accordo tutti rullando la canna dell’amicizia che fumammo tutti passandocela lì al Columbus. Quando venne l’ora, a tarda notte seguimmo le ragazze a Rivazzurra. Il clima di divertimento continuò anche a casa loro e non poteva che essere così. L’allegria aveva contagiato tutti alimentata anche dagli spinelli che il rosso sfornava rapido. Finii per essere cotto, mi venne da andare in bagno a pisciare. Quando uscii mi trovai faccia a faccia con Francesca.

«Fa caldo qui» mi disse, mi accompagni in balcone magari ci fumiamo una Camel»

Accettai di buon grado. E io e lei ci trovammo sul balcone a fumare. Ancora seduti l’uno a fianco l’altro in silenzio. Solo le nostre boccate di fumo si mischiavano sopra le nostre teste come se volessero comunicare in maniera impalpabile. Fu Francesca che ruppe quel silenzio quasi perfetto.

«Allora hai più sentito Giulia?»

Le sorrisi. «Stavo aspettando che me la facessi, la fatidica domanda. Giulia?» feci una pausa per schiacciare la sigaretta nel posacenere. Poi seduti come eravamo per terra mi abbracciai le gambe con le braccia e sui ginocchi appoggiai il mento, cercavo le parole ma non mi venivano.

«Sei proprio un Orso.» mi stuzzicò Francesca.

«Hmm!» mugugnai.

«Ecco vedi! Lo sei eccome.»

«Ed è una bella cosa o no per te che sono Orso?

«Certo che lo è!» Asserì convinta, «e sei pure un Orso carino.»

«Questa dell’Orso carino mi giunge nuova.»

«Ma si io ti immagino come quell’orsetto che esce dal bosco tutto batuffoloso e che corre verso di te parlandoti allegro e chiedendoti di giocare a palla con lui» spiegò Francesca.

«Certo che te le canti bene pure tu. Orso batuffoloso.»

Ci guardammo sorridendo negli occhi e scoppiammo a ridere. E io le passai una mano sui corti capelli.

«Mi piacciono e tanto, sono così lucidi e folti» confessai.

«Davvero?»

«Certo, chissà che belli che erano lunghi.»

Francesca aggrottò le sopracciglia. «Ecco anche a te ti piacciono lunghi, bugiardo.»

«Ma che hai capito,» provai a parare il colpo, «certo che mi piacciono così, ma mi immaginavo come potessero essere belli da lunghi.»

Francesca rovistò nella borsa di cuoio che aveva con sé. Mi allungò una foto. Era lei con i capelli lunghi, fino alla vita. Erano belli, ed era bella lei, così glielo dissi.

«Ti farò arrabbiare ma sei molto carina ecco.»

«Lo sapevo» disse con disappunto mentre riponeva la foto. «Sei come tutti gli altri. Voi maschi riducete tutto alle misure. Lunghi, corti, come il vostro pisello; lungo, corto, duro molto, duro poco, siete sfinenti e noiosi pure.»

«Adesso passiamo al pisello? La cosa si fa interessante.» la stuzzicai e mi scappo una risatina.

Francesca mi guardò ammiccando. «Perché non ti piacerebbe?»

«Cosa?» domandai ingenuamente

«Scoparmi?»

«…» sgranai gli occhi.

«Coraggio Orso» mi incalzò mentre espirava il fumo dalla sigaretta arrovesciando il capo all’indietro con un movimento che solo le ragazze sapevano fare, con grazia.

«Vuoi la verità?» tergiversai.

«A questo punto sì» e presa una sigaretta dal pacchetto che teneva nella borsa l’accese per poi tornare a fissarmi con aria interrogativa.

«Tu mi piaci e tanto» confessai.

«Tanto quanto?»

«È difficile, non so.»

«Provaci. Stupiscimi ragazzo diverso.»

«Sei bella come Roma» mi venne.

Francesca schiacciò la sigaretta nel posacenere, poi mi guardo con occhi limpidi, sorridendomi.

«Come Roma? Ed è così bella come dici?»

«La più bella città del mondo credimi.»

«E faresti l’amore con me?»

«Certo che sì»

«Anche adesso?»

«…»

le sorrisi.

«E come farai con Giulia?» domandò mentre sentivo il suo corpo morbido e pieno di vita premere contro il mio.

«Cosa vuoi che ti risponda?» mi venne da dire.

«Mi hai già risposto.» si distaccò da me.

Mi venne da fumare, mi accesi un’altra sigaretta e mi azzittii. Francesca mi prese sottobraccio con tocco delicato.

«Dai Lungo volevo solo scherzare con te. Piuttosto l’hai più rivista o sentita?»

«Non l’ho sentita né più vista da allora. Non so nemmeno se è tornata a casa oppure è ancora qui in giro. Buffo no?»

«Succederà me lo sento vedrai Lungo si risolverà tutto» e mi appoggio la sua testa sulla mia spalla e a me venne automatico poggiare la mia sul suo capo. E rimanemmo lì così per un lungo periodo, in silenzio. Poi Francesca si alzò mi diede un bacio lieve sulla guancia e tornò in stanza dalle altre. Rimasi su quel balcone solo con me stesso con quel cuore che non si arrendeva mai e che non voleva sentire ragione a inseguire un sogno, su una nave solitaria in mezzo ad un Oceano talmente vasto da non vederne mai la fine navigando verso il porto di “Nessuna Parte” che era in un luogo sconosciuto in mezzo al Nulla.

Columbus Stories

2. Pioggia

Era un’estate calda e afosa quella dell’Agosto 1983 apparentemente né più e ne meno delle altre precedenti ma quella sera fu diversa. Era da poco trascorsa l’ora di cena quando si levò un vento stizzoso che ingrossava col tempo. Dava quasi fastidio. L’aria era più fresca e spazzava via l’afa che ci aveva tormentato in quei primi giorni di agosto. Ero, con tutta la mia compagnia, al Columbus, io, il Biccio, Zanna, il Rosso e gli altri. Come solito dopo avere mangiato qualcosa di svelto alla Bomba bighellonavamo in su e giù per il crescentone grigio senza meta apparente. Ci fermavamo a parlare con tutti quelli che conoscevamo che stazionavano lungo il muretto da un capo all’altro del piazzale. L’aria sapeva di salmastro e odorava di pioggia, presagendo un temporale, non che la cosa mi preoccupasse o mi infastidisse, anzi tutt’altro, mi era sempre piaciuta la pioggia. Ricordo che l’anno prima mi ero fatto da Miramare a Riccione a piedi sotto un acquazzone violento. Ero andato là, da solo, a trovare una tipa, e siccome avevo prestato la mia vespa al Biccio, che vattelapesca chissà dove se n’era andato col Rosso, avevo finito per prendere l’Autobus. Avevo trascorso il primo pomeriggio con lei e i suoi amici al bar del bagno, una noia mortale tanto che mi domandai che cavolo ci stessi facendo lì. La ragazza era carina ma non era del nostro “Giro”, mi piaceva e basta. L’avevo conosciuta a Riccione vicino al piazzale Columbus, Io in Vespa e lei col codazzo di amiche in bicicletta. L’avevo notata, così l’avevo abbordata affiancandomi in vespa. Per farla breve mi aveva chiesto se l’indomani avessi avuto voglia di andarla a trovare al suo bagno a Miramare al “Bagno Apollo”. Quando arrivai al bar dello stabilimento ero già pentito, la sua compagnia era fatta da “Regolari” brufolosi suoi coetanei, che scoprii ben presto essere tutti rampolli di famiglie bene, e dalle sue amiche bruttine. Oddio che non ci sarebbe poi niente di male, ma fossero state almeno simpatiche, invece si rivelarono, all’opposto, insopportabilmente detestabili. Rimaneva solo la tipa che era molto carina ma che con la “Tribù” non c’entrava nulla, vero era che lei mi stuzzicava e mi faceva capire che le piacevo, ed io pensai che avevo risvegliato in lei la sua voglia di trasgressione. Faceva figo avere un ragazzo coi capelli lunghi, drogato e forse delinquente. Tutto bello, ma io ben presto cominciai a mostrare insofferenza, già avevo compreso che non avrebbe mai funzionato, eravamo troppo diversi, mi sentivo fuori posto, non mi ci trovavo e basta. Cercavo solo un pretesto per squagliarmela e tornare al Columbus. L’aiuto arrivò con la pioggia che cadde con un temporale improvviso e copioso. I suoi genitori arrivarono a prenderla al bar, di ritorno dalla spiaggia e io mi squagliai quasi senza salutarla. Appena fui fuori dal bar l’acqua che cadeva a scrosci mi inzuppò dalla testa ai piedi, non aveva più molto senso prendere l’autobus così fradicio mi sarei sentito molto a disagio. Camminavo sotto quel diluvio come se fosse la cosa più normale di questo mondo tanto oramai al punto in cui ero che importanza poteva avere, l’acqua che mi cadeva in rivoli freschi sul volto ed era una sensazione molto piacevole. Mi sentivo bene, leggero come una piuma, libero come non mai, anche se ad ogni passo che facevo sentivo la sgradevole sensazione delle mie All Star rosse che orami piene d’acqua sembravano diventare molto più pesanti. Fui colto dall’euforia, improvvisa, e sorridendo camminai felice e senza pensieri sotto quella coltre di pioggia fitta che cadeva ininterrottamente. Quando dopo circa un’ora arrivai al Columbus l’acquazzone era bello che finito e il sole piano piano tornò a splendere nel cielo. Mi asciugai fumando una Camel seduto sul muretto. Ricordi. Una goccia d’acqua che cadde sul polso mi riportò al presente E infatti la pioggia che presagivo arrivò puntuale come un acquazzone fitto e improvviso talmente violento che ci fu un fuggi fuggi generale dal piazzale. Anche io mi affannai a cercare un riparo, finii così di nuovo fradicio pigiato dentro alla R 4 blu di Gianni, anche lui di Bologna, assieme al Biccio e il Rosso, di Zanna si erano perse le tracce. Gianni soprannominato “Nappio” per il suo naso pronunciato faceva parte della nostra compagnia, quella dei Bolognesi.  Capelli castani corti, a causa del militare che aveva appena finito, il Nappio aveva occhi scuri e profondi un naso decisamente pronunciato e una bocca carnosa. Dotato di un’innata simpatia era però incline alla contestazione tout court risultando a volte troppo petulate. Lavorava come commesso in un negozio di scarpe da uomo di qualità in centro a Bologna e sulle quali si piccava di sapere tutto.  Il Rosso passandosi una manica sulla faccia si deterse dalla pioggia e poi si asciugò le mani sui jeans, subito dopo verificò tutto soddisfatto che cartine e paglie (sigarette) non si fossero bagnate e sentendosi pronto incominciò come suo solito a rollare una canna mentre noi quattro incominciammo a parlare dei massimi sistemi planetari. Cioè di ragazze.

«Cavolo proprio adesso doveva venire giù il mondo. Stavo intortando (intortare; corteggiare a quei tempi in gergo bolognese) una tipa che mi piaceva» esclamò Nappio.

«L’unica cosa che potevi intortare, o meglio infornare, Nappio era una torta alle mele» ridacchiò il Biccio.

«Ma per piacere Biccio lascia perdere. Proprio tu parli che non sei mai stato un’aquila con le donne», rispose piccato.

«Uhuu! Adesso questa discussione non me la voglio perdere» sbottò il Rosso mentre finiva di leccare la cartina prima di chiudere la canna.

«Ti ho visto fenomeno mentre parlavi con lei. Ti ero vicino e non te ne sei nemmeno accorto da quanto eri preso. Quella rispondeva più per gentilezza che altro credimi meglio che sia venuto giù il mondo dammi retta. Ti ci avresti sbattuto il grugno e ti saresti fatto male.»

«Sentiamo genio da cosa l’avresti capito?»

«Ti hi visto mentre cercavi di prenderle la mano per vedere dei braccialetti e lei cosa ha fatto?»

«Cosa ha fatto?» domandò il Nappio.

«Ha ritratto la mano.»

«E allora?»

«E allora non gli piaci, se le piacevi lasciava la mano ragazzo.»

Nappio si girò verso di me con gli occhi sgranati come per chiedermene conto immaginandosi che forse avrebbe potuto trovare un appoggio dal sottoscritto e invece lo liquidai.

«E così Nappio, ha ragione il Biccio» confermai.

«Ma andate a cagare voi due» sbottò.

E noi tre, canaglie, scoppiammo a ridere mentre il Nappio continuava a smoccolare. Però c’era del vero in quello che aveva detto Biccio. Il Nappio era un ragazzo semplice, non aveva mai elaborato quella sensibilità sottile che era necessaria con le ragazze né sapeva cogliere ogni piccola sfumatura o addirittura tutti quei messaggi non verbali che mandavano le ragazze se corteggiate e di certo non era cosa da tutti.

«Tieni Lungo tocca a te l’onore di accendere la canna» comunicò il Rosso.

«Perché ancora lui?» protestò il Nappio

«Perché non è ancora tornato sulla terra. Lo merità» disse il Biccio.

«Perché si era perso?» Incalzò Nappio.

«Lascia stare è una cosa lunga da spiegartela, lo accende il Lungo e basta» tagliò corto il Rosso.

«La prossima volta vi lascio sotto l’acqua e poi vedremo» mugugnò.

Il Rosso che sedeva di fianco a Nappio gli diede un sonoro coppino suscitando ilarità generale.

«Stronzo» protestò sonoramente, e noi giù a ridere di più.

Appena ci riprendemmo tutti io presi la canna dalle mani del Rosso e la offrii a Nappio.

«Dai accendila pure tu, siamo tuoi ospiti mi sembra giusto così. Non c’è problema davvero», asserii.

Nappio mi sorrise e soddisfatto di avere avuto quello a cui ambiva, accese la canna. Il fumo denso e aromatico si sparse per tutto l’abitacolo e io istintivamente aprii il finestrino. La luce nei lampioni era saltata e fuori era un buio pesto squarciato solo da lampi intermittenti che saettavano sopra il mare irradiando una luce spettrale. E dopo il lampo arrivava un rombo cupo e forte come di artiglieria mentre la pioggia si rovesciava su tutto e sembrava volesse, dalla sua intensità, lavare via tutte le colpe e tutti i peccati degli uomini. Il fumo della canna attratto dal vento che spirava se ne uscì dall’abitacolo come risucchiato e sparì. Quando toccò il mio turno diedi un bel tiro alla canna. Sentii il fumo scendere giù nei polmoni e poi quasi immediatamente arrivò la botta al cervello.  Passai lo spinello al Biccio che avevo seduto di fianco. Era bellissimo stare a fumare in silenzio in quello spazio ristretto con i tuoi migliori amici e il bello era che non dovevi dire nulla né a loro né a te stesso per farti accettare o per farti capire. Eri entrato in quella dimensione fortunata dove ci si capiva al volo senza sforzo alcuno. Momenti di magia tra persone che condividevano tutto emozioni comprese e non era cosa di poco conto.

«Qualcuno ha visto Zanna?» domandai.

«Tranquillo Lungo era con la Veronese. Vedrai che è al calduccio il furbone», mi rispose il Rosso.

«Venete, venete!» sbottò il Biccio sghignazzando guardandomi di sottecchi.

Gli mollai un lopez violento nella coscia e lui mi ricambiò con un grido di dolore.

«Sei scemo Lungo? Non si può più prenderti in giro?» protestò.

«No! Non puoi demente.»

E giù a ridere. Ridere tra amici, una delle cose più belle che potevano capitarti, era leggerezza. Ridere ti faceva vedere le cose in modo meno drammatico. Ridere mi riportò sulla terra di nuovo qui nel mondo reale strappandomi dall’altra dimensione, tutto mi sembrò molto più accettabile, calmava il mare in tempesta che avevo. La pioggia diminuì e poi come era arrivata la bufera passò…..

Fine della prima parte . La seconda parte di pioggia il prossimo sabato un saluto a tutti voi.

Columbus Stories

1. Incontri.

Seconda parte:

Entrammo al bar e ordinai due Ceres. Il barista ce le allungò. Pagai. Tornammo a sedere dove eravamo prima, nessun’altro ci si era seduto, erano ancora tutti su alla Mecca.

«Cosa fai di bello nella vita?» Mi domandò Francesca.

«Studio all’università. Storia e Filosofia.»

«Lo sapevo che eri diverso tu. Non sbaglio mai.» asserì ridacchiando.

«Perché dici questo non conosci ragazzi Universitari tu?»

«Qui al Columbus? Non direi.»

Si toccò la punta del naso con il dito indice come per grattarsi con un movimento leggero e femminile.

«Mi fai sentire diverso ma io sono un ragazzo comune come tutti gli altri qui. Tu piuttosto che fai di bello?»

«Lavoro come commessa. Abbigliamento in un negozio in centro città. Una noia.»

«Come mai non hai studiato?»

Francesca incominciò giocherellare con la manica del vestitino bianco.

«A scuola non avevo tanta voglia di studiare. Sono sempre stata un tipino inquieto, uno spirito libero. Finite le medie sono andata alle professionali ma è stato un disastro così compiuti i diciassette anni sono andata a lavorare. Non ho trovato niente di meglio che la commessa.»

«Beh! È un lavoro rispettabile, e poi guardala da un punto vista pratico. Sei indipendente. Io devo sempre chiedere soldi ai miei genitori. Perfino per venire in vacanza ho dovuto farmeli dare dai miei. È difficile pure per me che ti credi»

«E mi hai offerto la birra?» domandò sorridendomi di nuovo.

«Che centra, ho i soldi per un paio di birre non sono ancora sul lastrico» mi venne da sorridere di nuovo.

«Allora la prossima volta te le offrirò io» e avvicino con la mano la bottiglia così facemmo un brindisi e bevemmo una lunga sorsata. La birra era ancora fresca e mitigava il senso di afa che avvolgeva tutto.

«Che ci fai tutto solo qui?» Domandò incuriosita.

«La mia compagnia è andata tutta su in Mecca» tagliai corto.

«E come mai tu sei qui?»

«Mi annoiavo e sono tornato al Columbus. Non c’è un motivo» mentivo.

Francesca mi squadrò di nuovo fissandomi. I suoi occhi scuri e profondi diventarono due fessure.

«Non me la racconti giusta. Tu stai con una ragazza, ma sei qui solo. Cos’è avete litigato?»

«Hmm»

«Eccolo l’orso. Guarda che noi donne abbiamo una grande sensibilità. Fai come vuoi ma dietro ai tuoi mugugni c’è una ragazza.»

Scoppiai in una risatina nervosa.

«Va bene hai ragione», confessai.

«Lo sapevo che era così» disse Francesca soddisfatta.

Mi prese sotto il braccio e si fece più vicina come per ascoltare in modo più intimo la mia confessione.

«Che curiosona che sei.»

«Ti dispiace? Noi donne lo siamo e in misura tanto maggiore se c’è un’altra ragazza di mezzo. Per cui ora svuota il sacco.»

«E tu hai un ragazzo?»

«Non girare la frittata Orso. Comunque sì ho il ragazzo o perlomeno ho qualcuno con cui mi va di stare qui al mare. Per ora.» e calcò su quel per ora come se volesse farmi capire che non era un rapporto serio.

«Ma torniamo alla tua di storia avanti sto aspettando», e mi guardava ridacchiando facendomi occhi di triglia.

«C’è poco da raccontare. Io e lei non stiamo insieme, cioè stavamo insieme poi mi ha lasciato, prima dell’estate. Ci siamo rivisti qui al Columbus, una sera, a Ferragosto, siamo stati assieme di nuovo, solo quella sera poi è sparita un’altra volta.”

«Tutto qui?»

«Tutto qui» dissi sospirando come se mi fossi levato un peso di dosso.

«Non vi siete più rivisti?»

«No! Da allora no»

«Insomma il classico casino tanto per dire»

«Sì è un casino e si è incasinata pure la testa» le risposi.

«Beh ti deve piacere molto se te ne stai qui tutto solo a rimuginare.»

«Parrebbe» asserii mentre mi accendevo l’ennesima sigaretta.

«Sì! Sei proprio un Orso ma mi sei simpatico» asserì sorridendomi e dandomi un colpetto amichevole sulla spalla. Io ricambiai il suo sorriso e gli porsi il pacchetto di sigarette. Francesca mi sorrise e ne prese una. Gliel’accesi. Fumavamo ora l’uno di fianco all’altro di nuovo in silenzio. Ad un tratto una ragazza che era con un gruppo di ragazzi la chiamò.

«Devo andare» mi disse, «quella è una delle mie amiche vado a vedere che succede.»

Annuii continuando a fumare.

«Ci vediamo presto Marco da Bologna. Ti devo una bevuta.»

«Quando vuoi»

«Alla prossima allora», Francesca mi diede un leggero bacio sulla guancia e scesa dal muretto raggiunse il gruppo di ragazzi. Rimasi ad osservarla per un po’ finendo di fumare. Mi sentivo di nuovo precipitato nell’altro mondo quello rallentato, quello diverso da questo che era il reale. Tutto qui ripensai, io e Giulia eravamo finiti in un “tutto qui”, come se lo spazio dove eravamo si fosse ristretto e avesse spinto fuori lei e avesse intrappolato me.

Giulia libera di andarsene senza voltarsi e io imprigionato per sempre. Sì e tutto qui dissi tra me e me. Proprio in quel momento arrivarono al Columbus i miei amici che erano tornati dalla Mecca. Mi staccai da quel muretto e li raggiunsi…..

Finisce qui il mio primo racconto peraltro breve delle “Columbus Stories” ma ho già scritto altri due racconti più lunghi che raccontano altri avvenimenti del protagonista, il Lungo e dei suoi amici. Spero che avrete gradito. Se volete seguitemi cliccando sul tasto Follow che trovate in basso qui sotto.

Vi saluto e al prossimo racconto che si intitolerà Pioggia sempre sabato prossimo.

Columbus Stories

1. Incontri.

Appena arrivai al Columbus parcheggiai come solito il mio PX blu, lì davanti dove c’erano i posti riservati alle moto. Ero tornato molto prima dalla Mecca, non avevo più voglia di starci e avevo lasciato i miei amici su, dopo averli avvisati. Era da poco passata la mezzanotte e sul grigio crescentone c’erano ancora tanti ragazzi e ragazze. Trovai un posto tranquillo vicino al Bar Sombrero a fumare, in quel momento volevo stare solo con me stesso, dentro ero un mare in tempesta.  Dopo che ci eravamo visti di nuovo con Lei a Ferragosto le cose non erano più state le stesse. Era come se vivessi in un diverso pianeta con una diversa gravità, che mi faceva vedere le cose come se fossero rallentate, ed io mi sentivo slegato da tutto e tutti, praticamente fuori posto. Non riuscivo nemmeno più a relazionarmi con i miei amici, rispondevo a monosillabi, non mi interessavo a nulla e finii per essere il loro bersaglio di innocenti prese in giro peraltro ampiamente meritate. Nei giorni seguenti Ferragosto riemergevo brevemente da questa condizione solo alla sera, quando con i miei amici tornavamo al Columbus dopo cena. Lo era solo perché speravo di rivederLa così La cercavo tra la folla colorata e chiassosa ma appena mi rendevo conto che Lei non c’era venivo risucchiato di nuovo sull’altro pianeta e tutto rallentava di nuovo. Quella sera era successo lo stesso, e quando, poco più tardi, si era deciso di andare su in Mecca io li avevo seguiti senza molta convinzione, dentro di me sentivo già il mare in tempesta che ruggiva dentro. Appena ebbi occasione, semplicemente me ne andai. Ora ero seduto a fumare sul muretto da solo. Acquistai una prima Ceres e mentre bevevo mi accesi un’altra Camel. Espirai fuori il fumo. Osservavo le lente volute che lentamente salivano disperdendosi poco più in alto. Diedi un’altra sorsata alla birra. Ero perso in chissà quali pensieri nemmeno mi ero accorto che qualcuno si era seduto vicino a me.

«Scusa mi offri una sigaretta?» domandò

Era una ragazza minuta con i capelli scuri molto corti sulla testa, non più di quattro o cinque centimetri cosa insolita per quel periodo soprattutto per una ragazza. Portava un vestitino di cotone bianco corto, e ciabattine indiane, era tutta abbronzata, segno che era al mare già da tempo. Era a modo suo carina ed emanava una sensazione di freschezza e grande vitalità. Senza dire una sola parola le offrii la Camel che mi aveva chiesto.

«Mi fai accendere?»

Così feci e anzi me ne accesi una pure io.

«Sei un tipo di poche parole tu?»  Mi incalzò.

«Hmm» feci io.

La ragazza espirò un’altra boccata di fumo e continuò a fissare la cenere della sigaretta, il silenzio ci avvolgeva.

«Io mi chiamo Francesca? E tu?»

«Marco.»

«Da dove vieni?»

«Bologna.»

«Io vengo da Reggio Emilia.»

«Hmm» feci di nuovo mentre schiacciavo con il piede la sigaretta.

Lei si passò veloce una mano sui corti capelli e saltò giù dal muretto impacciata. Ero stato non proprio accomodante e mi dispiacque.

«Scusami non sono bravo a parlare, resta se vuoi.» riuscii a dire.

Francesca mi fece un sorriso, si accarezzò di nuovo con il palmo della mano i capelli corti come a scacciare via un momento di imbarazzo e si sedette di nuovo.

«Sai prima di agosto avevo i capelli lunghi, giù dritti fino alla vita. Poi non so cosa mi ha preso, ho fatto la permanente, una cosa orrenda da pelle d’oca. Non facevo altro che piangere. Un giorno li ho tagliati corti dalla disperazione.»

La guardai dritto negli occhi.

«Non ti stanno mica male così credimi.»

«Davvero?»

Sembrava indifesa in quel momento.

«Girati un attimo, di profilo.»

Francesca obbedì.

«Stai benissimo invece ti si vedono le orecchie. Hai orecchie perfette, e anche la forma della testa non è male» asserii sorridendole.

Francesca mi sorrise e sembrava sollevata.

«Da quando mi sono praticamente rapata nessuno dei ragazzi mi ha più fatto un complimento mentre prima erano tanti gli apprezzamenti sui miei capelli lunghi. È diventato imbarazzante credimi.»

«Ti capisco, queste cose ti fanno sentire strano. Non è una bella sensazione, ci sono passato pure io.»

«Tu parli diverso dagli altri ragazzi» disse Francesca.

«Diverso come?» domandai incuriosito.

«Diverso!» replicò guardandomi come se fossi un animale raro.

«Hmm.»

«Eccolo l’orso che torna fuori» mi stuzzicò.

«Davvero pensi che sia un Orso» mi venne da ridere.

«Sì! lo sei. Eccome»

«Vuoi una birra?»

«Sì grazie.»

«Chiamami Lungo. Qui mi chiamano tutti così.»

«Lungo? Eccerto sei una pertica» mi squadrò dal basso vero l’alto «Quanto sei alto?»

«Quasi due metri»

«Sembro una nana vicino a te», obiettò Francesca.

«Ma smettila che vai bene così, pure con l’altezza cominci? Non ti bastavano i capelli?» la presi in giro.

Francesca si ripassò il palmo della mano di nuovo sulla testa. Allora mi venne istintivo farlo anche io. Lei me lo lasciò fare. Mi guardò con i suoi occhi grandi, erano limpidi.

«Sono bellissimi, sono lucidi e forti e morbidi al tatto mi piace accarezzarli.»

«Mi ci vorranno minimo tre anni per farli ricrescere come prima.»

«Abbiamo tempo per la birra allora» dissi.

Fine parte 1.